Italia, perchè è calata la voglia di “fare impresa”?

I nostri connazionali hanno ancora il mito dell’imprenditorialità? Forse no. L’Italia si colloca infatti al 36º posto nella classifica mondiale per la propensione imprenditoriale del Paese. Negli ultimi dieci anni, si è assistito a una notevole diminuzione dell’inclinazione a avviare nuove imprese, con un calo ancora più evidente nel settore manifatturiero. Un dato su tutti: nel 2023, l’attività imprenditoriale è scesa al 60% rispetto al livello del 2010.

Questi dati emergono dal Rapporto GEM Italia 2023-2024, presentato dall’Universitas Mercatorum a Roma, presso la Sala Longhi di Unioncamere.

La valenza del GEM a livello globale

All’evento, come riferisce Italpress, hanno partecipato rappresentanti istituzionali, professionisti accademici ed economici, tra cui Giuseppe Tripoli, Segretario Generale di Unioncamere, Amedeo Teti del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Giovanni Cannata, Rettore dell’Universitas Mercatorum, e altri esperti del settore.

Il GEM è diventato uno strumento chiave nello studio dell’imprenditorialità a livello globale, coinvolgendo 46 paesi e oltre 100.000 individui tramite interviste dirette, di cui 2.000 in Italia nel 2023. Il rapporto si propone di fornire una visione approfondita della situazione imprenditoriale italiana, identificando sfide e opportunità attuali e future per promuovere una maggiore attività imprenditoriale nel Paese.

Gli ostacoli che frenano l’imprenditoria 

Tuttavia, nonostante la ripresa degli ultimi anni, l’Italia rimane tra i paesi con una bassa propensione imprenditoriale, con un gap significativo tra l’interesse alla creazione di imprese e la loro effettiva attuazione. A pesare sensibilmente su questo divario ci sono sia fattori soggettivi, come la tendenza a ridurre i possibili rischi, sia fattori di contesto, come le difficoltà burocratiche.

L’istruzione come base dell’imprenditorialità

Il rapporto sottolinea l’importanza dell’istruzione nell’incoraggiare l’imprenditorialità, con una maggiore propensione tra i laureati. Per questa ragione è essenziale introdurre la formazione imprenditoriale nel sistema educativo. In questo contesto, l’Università annuncia l’avvio del Contamination Lab, un programma di formazione all’imprenditorialità aperto a studenti, dottorandi e assegnisti.

Non mancano i segnali positivi

Il GEM Italia rileva segni di ripresa negli ultimi anni, specialmente dopo la crisi economica causata dalla pandemia. Tuttavia, persiste una significativa differenza di genere nell’attività imprenditoriale, con tassi di attivazione più elevati tra gli uomini. Tale divario è più marcato in Italia rispetto ad altre economie avanzate.

Conclusione

In sintesi, il rapporto GEM sottolinea la necessità di affrontare le sfide strutturali e culturali che limitano l’imprenditorialità in Italia, promuovendo l’istruzione imprenditoriale e riducendo le disparità di genere per favorire una crescita economica sostenibile e inclusiva.

I social sotto la lente di chi seleziona il personale: a cosa stare attenti?

La diffusione dei social network ha rivoluzionato radicalmente il modo in cui i recruiter accedono alle informazioni di chi si candida per un posto di lavoro. I cacciatori di teste, infatti, utilizzano questi strumenti per la ricerca di nuovi talenti in maniera più massiccia rispetto al recente passato.

Un’indagine condotta da The Adecco Group su circa 500 recruiter ha messo in luce l’importanza cruciale dei social media nel moderno processo di reclutamento, con il 51% dei recruiter che dichiara di aver subito un’influenza negativa durante il processo di selezione dopo aver controllato i profili social dei candidati.

La presenza online esaminata dai recruiter

Questo dato segna un notevole aumento rispetto a dieci anni fa, quando solo il 12% dei recruiter era influenzato dai social. Ma c’è stata una crescita significativa anche rispetto al 2021, quando tale percentuale si attestava al 30,8%. Le ragioni dietro tale tendenza sono varie: il 37% degli intervistati ha citato la presenza di foto considerate inappropriate, il 27% ha menzionato tratti di personalità evidenziati dai contenuti pubblicati, mentre il 17% ha notato manifestazioni discriminatorie di natura sessuale e/o razziale nelle interazioni dei candidati.

Dopo aver ricevuto il curriculum vitae, i recruiter intervistati dichiarano di esaminare la presenza online del candidato, concentrandosi sulle esperienze professionali nel 65% dei casi e sui contenuti postati nel 47%. Insomma, come e cosa si posta sui social network fa la differenza fra una potenziale assunzione o meno.

I social influenzano i processi di reclutamento

“L’uso dei social media da parte dei candidati sta sempre più influenzando le decisioni di reclutamento”, ha affermato Lidia Molinari, direttore people advisor di Adecco Italia. “I dati ci dimostrano che lo screening sui social è uno strumento cruciale nel processo di selezione per oltre la metà dei recruiter, che non solo sfruttano i social media per la ricerca di talenti, ma anche per valutare i candidati.”

“Per questo motivo”, ha sottolineato, “consigliamo a chiunque stia cercando un’opportunità lavorativa di sviluppare un personal branding sui social che tenga conto della selezione dei contenuti prima della loro pubblicazione e di prestare attenzione alle modalità di interazione online”.

LinkedIn si conferma il social professionale per eccellenza

Tra i social media più utilizzati per la ricerca di candidati, Linkedin si conferma al primo posto, con il 96% dei recruiter che lo utilizzano: il 67% per la raccolta di candidature e il 60% per la ricerca di candidati passivi. Questi ultimi sono professionisti che non sono attivamente alla ricerca di lavoro e non si aspettano di ricevere proposte di lavoro, rendendo l’analisi dei loro profili social un componente fondamentale del moderno Social Recruiting.

Mercato pubblicitario Out of Home: raggiunge 696 milioni nel 2023

Il digitale si sta facendo sempre più strada portando innovazione e guidando anche la crescita del mercato pubblicitario l’Out of Home (OOH). Secondo i dati dell’Osservatorio Internet Media della School of Management del Politecnico di Milano il mercato Out of Home tocca quota 696 milioni di euro (+13%), aumentando la sua importanza all’interno del Media Mix pubblicitario italiano. Raggiunge infatti il 7% della raccolta complessiva (+1% vs 2022).

In questo panorama è sempre più rilevante il ruolo del Digital Out Of Home (DOOH), che con 201 milioni di euro (+21%) pesa circa un terzo sulla raccolta totale del mezzo.
“Il trend positivo di questa componente sarà ancora più evidente nel 2024: il DOOH sarà infatti responsabile del 64% della crescita di questo Media prevista – dichiara Denise Ronconi, Direttrice dell’Osservatorio – e raggiungerà 242 milioni di euro (+21%), con un peso del 32% sulla raccolta complessiva”. 

Nuove opportunità grazie al Programmatic DOOH

Lo sviluppo della componente digital e i crescenti investimenti per la diffusione di impianti digitali portano nuove opportunità per il mercato Out of Home, che ora può sfruttare modalità di compravendita simili al Programmatic advertising disponibile per gli spazi pubblicitari online.

In particolare, il Programmatic Digital Out of Home (pDOOH) fa riferimento all’automazione del processo di acquisto, vendita e distribuzione dell’inventory degli schermi digitali, offrendo agli advertiser funzionalità di targeting avanzate per raggiungere gli utenti anche fuori casa.
In Italia il mercato del Programmatic DOOH è ancora piuttosto contenuto anche se registra tassi di crescita rilevanti: nel 2023 vale circa 10 milioni (+61%) e pesa il 5% della raccolta Digital Out of Home.

Le tecnologie di rilevazione dei dati

Il mercato a oggi è caratterizzato da una molteplicità di tecnologie e modalità di rilevazione di dati utili per la pianificazione e la misurazione delle campagne Out of Home.
In particolare le tecnologie di rilevazione si possono ascrivere a due categorie principali, le classi di dati provenienti da monitoraggio diretto da parte del Media Owner (sensori Wi-fi, beacon bluetooth, cam) e quelle derivanti da player terzi di diversi settori (GPS/SDK app, Telco/SIM).

Questi sistemi permettono di raccogliere dati e informazioni con i quali implementare metriche differenti (tra le quali viewers, tempo di permanenza, tempo di attenzione, frequenza di ritorno) volte a supportare una pianificazione efficace della campagna.

Rimangono alcune aree da migliorare

Se questi approcci abilitano l’effettiva possibilità di una valutazione dell’impatto atteso delle campagne, agli occhi degli advertiser rimangono alcune aree rilevanti di miglioramento.
Tra queste emergono soprattutto l’eterogeneità dell’offerta da parte delle concessionarie Out of Home, la frammentazione del mercato e la mancanza di uniformità delle metriche proposte, per cui una stessa metrica può essere basata su calcoli e dati diversi a seconda del Media Owner di riferimento.

Questo ha come conseguenza un sistema di misurazione che rende ancora ardua la valutazione di campagne complesse, soprattutto nel caso di stima dell’impatto di iniziative cross-media che vedono integrata all’OOH anche l’attivazione di altri mezzi (Tv, mobile, ecc.).

Sanità tech: un progetto EU a guida italiana per creare strumenti di valutazione

La sanità europea del futuro sarà tech. Dalle app alle visite da remoto fino all’Intelligenza artificiale a scopo diagnostico, e più in generale, a supporto dei clinici nello scegliere le cure migliori per ogni paziente, la tecnologia è al servizio della sanità. E gli scienziati europei, sotto la guida di esperti dell’Università Cattolica di Roma, stanno lavorando per mettere a punto una piattaforma in grado di valutare oggettivamente efficacia e affidabilità delle tecnologie digitali in campo medico.

Si tratta del progetto di ricerca di Health Technology Assessment (HTA) applicato alle tecnologie sanitarie digitali (DHTs). Il primo quadro di valutazione della tecnologia digitale per la salute in Europa (EDiHTA) co-creato dai diversi attori coinvolti lungo la catena del valore. E finanziato con 8 milioni di euro nell’ambito del progetto Horizon.

Dalla telemedicina fino all’AI per migliorare qualità delle cure e contenere i costi

L’adozione di soluzioni di telemedicina, app per la salute e di strumenti basati sull’Intelligenza artificiale, può non solo migliorare la qualità delle cure, ma anche ridurre le disuguaglianze di accesso e contenere i costi.

Nel 2020 il COVID ha imposto un’accelerazione alla trasformazione digitale dei servizi sanitari.
In Italia, le cartelle cliniche elettroniche, i pagamenti online e le prescrizioni digitali sono state rapidamente implementate.

Il primo framework digitale di Health Technology Assessment

EDiHTA proporrà dunque il primo framework digitale di Health Technology Assessment, che sarà specificamente dedicato alle tecnologie digitali, per valutare la telemedicina, le app mediche, l’Intelligenza artificiale a diversi livelli geografici (nazionale, regionale e locale) e istituzionali, come le strutture ospedaliere. La piattaforma verrà testata negli ospedali europei.

L’obiettivo finale è quello di creare un sistema che aiuti a prendere decisioni mirate su quali tecnologie sanitarie digitali adottare. In particolare, su come integrare le tecnologie al meglio nel percorso clinico dei pazienti, e come utilizzarle in merito alle decisioni di politica sanitaria da adottare per la gestione degli ospedali.

Il consorzio di EDiHTA comprende 16 partner da 10 Paesi

Il progetto ha come centro coordinatore l’Università Cattolica e vede come Principal investigator Americo Cicchetti, attualmente Direttore generale alla Programmazione del Ministero della Salute, e come co-PI Dario Sacchini, Associato Medicina Legale all’Università Cattolica e Bioeticista.

Il consorzio di EDiHTA comprende 16 partner da 10 Paesi europei: Belgio, Danimarca, Germania, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svizzera.
Al progetto partecipano, tra gli altri, università, agenzie di HTA, ospedali, una associazione di pazienti, una ONG specializzata in HTA, l’European Patients’ Forum e l’European Health Management Association.

La sfida “zero spese”: ecco perchè è virale e perchè fa bene all’ambiente

Risparmiare, o addirittura non spendere affatto, è un obiettivo rilevante non solo quando le disponibilità economiche non ci sono… Ma è importante anche per ridurre il proprio impatto ambientale attraverso scelte di consumo oculate. Ecco la ratio che sta dietro la nuovissima tendenza battezzata #nospendchallenge.

Una sfida che si prefigge di rispondere alle crescenti crisi finanziarie di un mondo sempre più complesso. Il costo della vita, anche in contesti economicamente agiati, è diventato un problema, tanto da spingere molte persone ad adottare uno stile di vita più parsimonioso. 

Nulla che non sia essenziale

La no spend challenge, ovvero il proposito di non acquistare nulla che non sia strettamente necessario per un determinato periodo, può essere una strategia efficace. La sfida, che può durare da una settimana a un anno, non comprende ovviamente le spese obbligate come mutuo, bollette, cibo, medicinali e acquisti alimentari.

Gli esperti suggeriscono di identificare in anticipo cosa è davvero essenziale e rinunciare al resto. Ad esempio, visto che ognuno di noi ne possiede già in quantità, si potrebbe evitare di acquistare libri, vestiti, junk food, cosmetici, device elettronici, servizi streaming e altro.

Il danno ambientale dietro lo shopping compulsivo

L’aspetto ambientale degli acquisti è uno dei motivi chiave del successo della sfida, riferisce Adnkronos. La sovraproduzione, alimentata dal fast fashion e da consumi eccessivi, ha innescato un impatto ambientale ormai fuori controllo. La Generazione Z, particolarmente sensibile ai problemi ecologici, è la più attiva nel partecipare alla sfida per agire direttamente contro la crisi ambientale.

Gli effetti dello shopping online

L’aumento del ricorso allo shopping online ha generato, soprattuto per imballi e politica di resi gratuiti, un surplus in fatto di costi ambientali. L’e-commerce, anche se produce meno emissioni di gas serra rispetto agli acquisti in negozio, comporta comunque impatti significativi.

La #nospendchallenge contribuisce a spezzare il circolo vizioso dell’acquisto compulsivo, promuovendo la consapevolezza delle reali necessità e stimolando la creatività. La sfida è vista come un modo per aderire a uno stile di vita anti-consumista, contrastando il desiderio impulsivo alimentato dalla ricerca di una gratificazione istantanea.

Imparare a gestire il denaro

La sfida ha anche implicazioni positive sulla gestione del denaro, soprattutto tra i giovani. Molti ragazzi della Generazione Z tendono a comprare ancor prima di riflettere,  senza una reale consapevolezza del valore dei soldi. In conclusione, la no spend challenge dimostra che è possibile vivere con meno, migliorando non solo l’ambiente ma anche il proprio budget e, presumibilmente, la salute mentale.

La sfida non è solo un esercizio di morigeratezza, ma un passo verso uno stile di vita più consapevole e sostenibile.

Lombardia, buone notizie sullo stato delle foreste: nel 2022 aumentano i boschi

Nel decennio 2009-2018 la superficie boscata nella regione Lombardia è aumentata complessivamente del 2,7%, mentre la realizzazione di nuovi boschi ha coperto una superficie di 176 ettari ogni anno.
Nel 2022 la superficie forestale in Lombardia è di 619.726 ettari e ricopre il 26% del territorio regionale. Un patrimonio in grado di assorbire ogni anno 3 tonnellate e mezzo di anidride carbonica, la principale responsabile del surriscaldamento globale.

È quanto emerge dall’ultimo rapporto ERSAF dello Stato delle foreste lombarde nel 2022. L’andamento della superficie bosco è in continua espansione, ma con una presenza sbilanciata tra pianura, collina e montagna, e forti disparità di copertura tra superfici provinciali.

La provincia di Brescia vanta la superfice boscata maggiore

Più nel dettaglio, la provincia con la maggiore superficie boscata è Brescia, con 171.469 ettari, mentre Como e Lecco sono quelle con il tasso di boscosità più alto.
Nelle foreste lombarde sono presenti ben 17 specie, a dimostrazione della grande biodiversità del territorio, e gli alberi più rappresentati sono castagni (11,3%), abeti rossi (11,1%), carpini neri (10,8%) e faggi (10,4%).

I Piani di Indirizzo Forestale (PIF) gestiscono il 73% della superficie boscata regionale, che corrisponde a 455 mila ettari. Nel 2020 sono stati approvati tre nuovi PIF, mentre sei sono i nuovi Piani di assestamento forestale (PAF) che hanno portato il totale dei PAF a 88.
Per il triennio 2021-2023 Regione Lombardia ha messo a disposizione delle Comunità Montane uno stanziamento complessivo di 13 milioni e mezzo di euro (4 milioni e mezzo di euro l’anno) a sostegno del sistema agricolo e forestale.

Anche il bosco può cambiare “destinazione d’uso”

Nel 2022 sono stati collaudati 88,62 ettari di nuovi boschi, il dato più alto dal 2015. Sempre nel 2022 gli Enti forestali hanno autorizzato 610 richieste di trasformazione del bosco per 108,97 ettari, mentre per quanto riguarda le nuove destinazioni d’uso del bosco, quella prevalente è l’utilizzo a fini agricoli, che rappresenta il 21,3% (16,17 ettari) della superficie complessivamente richiesta.

La normativa nazionale e regionale stabilisce che chi viene autorizzato a ‘trasformare’ un bosco per cambiarne la destinazione d’uso, deve realizzare interventi compensativi attraverso la creazione di nuovi boschi o il miglioramento di quelli esistenti. 

Nel 2022 più incendi, ma la superficie colpita è la minore del decennio

A fronte di questi numeri, gli incendi registrati nel 2022 sono stati in numero decisamente superiore alla media regionale dell’ultimo decennio, complice l’andamento meteorologico particolarmente siccitoso.

La superficie media per evento, pari a 3,5 ha/incendio, è però decisamente al di sotto di quella del decennio. Quanto all’emergenza legata all’infestazione epidemica da bostrico, che colpisce l’abete rosso, prosegue nel 2022 e purtroppo risulta intensificata. Nelle valli con elevazione orografica inferiore, come la Valsabbia e la Valtrompia, la permanenza dell’abete rosso in purezza è da considerare ormai compromessa.

Lavoro: il 2024 si apre all’insegna del cambiamento per il 61% degli italiani

Nell’anno in corso circa 6 italiani su 10 (61%) stanno valutando nuove sfide professionali. La principale motivazione? Sicuramente, la possibilità di un aumento di retribuzione (34%), seguita dalla ricerca di una migliore work-life balance, importante per il 23% dei professionisti nel nostro Paese.

È quanto emerge da un’indagine condotta su scala internazionale da Linkedin. In Italia, sono le donne a farsi da protagoniste della tendenza a esplorare nuove opportunità professionali, con il 66% delle intervistate (56% uomini) che dichiara di valutare o cercando attivamente una nuova posizione.
Ma più della metà (51%) dichiara di trovare frustrante l’attività di ricerca di un nuovo lavoro. Tra le donne, il senso di disagio è più alto (56%) rispetto agli uomini (46%).

Per i Millennials il reskilling è fondamentale

In questo scenario, la competizione tra professionisti si fa sempre più alta e la capacità di valutare correttamente e ampliare le proprie skill diventa fondamentale. Il 35% delle intervistate però non sa come allineare le proprie competenze con quelle richieste per accedere a nuove opportunità professionali, contro il 47% che si sente sicura.

In generale, lavoratori e lavoratrici in Italia sembrano consapevoli dell’importanza delle competenze. Il 74% degli italiani, infatti, considera il re-skilling necessario, percentuale che sale all’80% tra i Millennials.
Le skill ritenute più importanti sono capacità di problem solving (31%), abilità nel comunicare (30%) e conoscenza di una o più lingue straniere (23%).

Si diffonde un certo spirito di imprenditorialità

Se il 55% dichiara di volersi nuovamente concentrare sul proprio percorso di crescita professionale, il dato sale al 58% tra i Millennials, al 56% tra GenZ e GenX per poi abbassarsi al 48% tra i Boomers.
L’attenzione è alta anche per quanto riguarda i metodi di ricerca: il 43% (48% Millennials) ha cambiato strategia per stare al passo con i cambiamenti nel mondo del lavoro. Tuttavia, il 43% dei professionisti afferma di ottenere raramente un feedback da parte delle aziende.

Sembra poi essere diffuso un certo spirito di imprenditorialità: il 56% sta valutando la possibilità di mettersi in proprio, rimanendo nel proprio settore (19%), cambiando campo (15%), o trasformando la propria passione in un lavoro vero e proprio (22%).

Come trattenere i talenti?

Il 62% degli hiring manager ritiene che nel 2024 i datori di lavoro avranno maggiore capacità di negoziare con i candidati. Tuttavia, il 39% dei responsabili delle assunzioni prevede un aumento del tasso di turnover e il 55% sottolinea la difficoltà di trovare candidati qualificati.

Il 31% degli intervistati ritiene, infatti, che fornire programmi interni di apprendimento e sviluppo (L&D) centrati, ad esempio, sull’AI generativa sia fondamentale per trattenere i talenti più qualificati.
Più nel dettaglio, riporta Adnkronos, secondo il 71% degli intervistati i dipendenti della GenZ hanno bisogno di ulteriore supporto per sviluppare le soft skills (come comunicazione, collaborazione, negoziazione), nonostante per il 76%8 degli hiring manager siano i più aperti all’adozione di nuove tecnologie, come l’AI.

Meglio lasciare il condizionatore acceso o spento quando non si è in casa?

Quando l’estate arriva, con essa iniziamo ad avvertire la necessità di rinfrescare la temperatura all’interno delle mura di casa.

Da questo punto di vista il climatizzatore è un dispositivo ormai indispensabile per tante persone, al punto tale da essere utilizzato anche giorno e notte nelle giornate più afose.

A tal proposito, grazie anche alla possibilità di controllo da remoto, tante persone hanno preso l’abiutidine di lasciare accesa l’aria condizionata anche quando non sono in casa, mentre altre sono tentate dal fare altrettanto.

Ecco perché è importante capire quando è meglio lasciare il climatizzatore acceso e quando è meglio spegnerlo, e di seguito offriremo alcuni consigli utili per aiutare nella scelta.

Condizionatore acceso o spento in tua assenza? I fattori da considerare

Ecco alcuni fattori da considerare quando devi decidere se lasciare il condizionatore acceso o spento quando non sei in casa:

  • La durata dell’assenza: Se sarai fuori casa per qualche ora, è meglio spegnere il condizionatore. In questo modo, risparmierai energia e denaro.
  • La temperatura esterna: Se fuori fa molto caldo, sarà possibile valutare l’idea di lasciare il condizionatore acceso per evitare che la casa diventi troppo calda.
  • La presenza di animali domestici o piante: Se hai animali domestici o piante in casa, è meglio lasciare il condizionatore acceso ad una temperatura moderata. In questo modo, eviterai che gli animali si sentano male e che le piante si secchino.

I vantaggi dello spegnere il condizionatore

Spegnere il condizionatore quando non sei in casa ti permette sicuramente di risparmiare energia e dunque denaro. In particolare, secondo uno studio dell’Università del Colorado, spegnendo il condizionatore per almeno otto ore consecutive si può arrivare a risparmiare fino all’11% in un anno.

Inoltre, spegnere il condizionatore quando non si è in casa aiuta a proteggere l’ambiente, aspetto questo da non sottovalutare. Infatti, l’utilizzo del condizionatore produce emissioni di gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale, e tenendolo spento possiamo limitare questo fenomeno.

Certamente, bisogna valutare la temperatura esterna prima di prendere questa decisione. Se ad esempio fuori ci sono 40 gradi o più, lasciare il condizionatore acceso durante una nostra breve assenza potrebbe essere raccomandabile.

I vantaggi di lasciare il condizionatore acceso

Lasciare il condizionatore acceso quando non sei in casa può avere alcuni vantaggi, facilmente intuibili:

  • Evitare che la casa si riscaldi troppo: Se fuori fa molto caldo, lasciare il condizionatore acceso a una temperatura moderata può aiutare ad evitare che la casa si riscaldi troppo e che questo calore venga poi rilasciato pian piano quando sei in casa.
  • Mantenere l’umidità sotto controllo: Il condizionatore aiuta anche a mantenere l’umidità in casa sotto controllo, il che è importante dato che l’umidità eccessiva può causare problemi di salute. Una buona idea è dunque quella di sfruttare la funzione “deumidificatore” quando non sei in casa.

La modalità “Eco”

La modalità “Eco” è una funzione presente su molti condizionatori, soprattutto quelli più moderni, che permette di risparmiare energia. Con questa modalità, il condizionatore funziona a una temperatura leggermente più alta e a una velocità del ventilatore più bassa.

Se hai la possibilità di utilizzare la modalità “Eco”, questa potrebbe essere un buon compromesso tra risparmio energetico e comfort.

Il termostato intelligente

Un termostato intelligente può aiutarti a risparmiare energia e denaro anche quando non sei in casa. Questo tipo di termostato ti permette infatti di programmare l’accensione e lo spegnimento del condizionatore in base alle tue esigenze, o alle temperature rilevate tra le mura domestiche.

Ad esempio, puoi impostare il termostato in modo che si si accenda quando stai per tornare, oppure che entri automaticamente in funzione quando la temperatura o il livello di umidità superano un certo limite.

Se hai un sistema di climatizzazione canalizzata, grazie ad un termostato intelligente al tuo rientro non troverai fresca soltanto una stanza ma l’intero appartamento.

In breve

La decisione di lasciare il condizionatore acceso o spento quando non sei in casa dipende da diversi fattori, tra tutti la durata della tua assenza e la temperatura esterna.

Ad ogni modo, rientrare in casa e trovare una temperatura fresca è un qualcosa di davvero piacevole, per questo tante persone fanno già così.

Certamente, sfruttare la funzione deumidificatore o quella “Eco” quando non si è in casa potrebbe essere un buon compromesso tra consumi e comfort percepito.

Turismo estero: nel 2023 oltre 13,8 miliardi di spesa in bar e ristoranti 

Nel 2023 hanno visitato il nostro Paese oltre 65 milioni di stranieri, spendendo in media oltre 212 euro a persona in colazioni, pranzi, cene e aperitivi, per un totale di oltre 13,8 miliardi di euro. L’ammontare più alto dal 2019.

La spesa al bar e ristorante costituisce il 33% dei consumi complessivi dei viaggiatori stranieri in Italia, che nel 2023 dovrebbero aver toccato quota 42 miliardi di euro, +7,8% rispetto al 2022.
Emerge dai dati elaborati da Fiepet, l’associazione dei pubblici esercizi aderenti a Confesercenti, sulla base di elaborazioni su dati del CER e del Centro Studi Turistici di Firenze.

Le voci di spesa

La spesa dei turisti stranieri nei pubblici esercizi è la seconda voce in assoluto dei visitatori esteri in Italia. Subito dopo l’alloggio, che ne assorbe il 36%, per un totale di oltre 15,1 miliardi di euro.
Seguono i trasporti (11%, 4,6 miliardi), ma anche lo shopping nei nostri negozi, cui i turisti hanno destinato circa 4,2 miliardi (10%). Circa il 6%, poco più di 2,5 miliardi, è stato destinato invece ad attività ricreative e culturali, mentre quasi 1,7 miliardi sono stati assorbiti per altre attività e servizi.

In generale, a consumare di più, per un totale complessivo di 6,8 miliardi di euro, sono i turisti tedeschi. Al secondo posto i visitatori in arrivo dagli USA (5,2 miliardi), seguiti da Regno Unito (3,8 miliardi), Francia (3,6 miliardi), Austria (2,1 miliardi), Spagna (1,8 miliardi) e Svizzera (1,6 miliardi).

Un euro su tre speso in un pubblico esercizio

Seguono i viaggiatori del Canada (1 miliardo) e del Giappone (550 milioni), mentre la spesa dei Russi si ferma a 210 milioni. I restanti 15,34 miliardi di euro, invece, arrivano dai viaggiatori degli altri Paesi.

“I viaggiatori stranieri spendono un euro su tre in un pubblico esercizio – commenta Giancarlo Banchieri, Presidente Fiepet Confesercenti -. Una preferenza che ha permesso, nelle mete turistiche, di compensare in parte il rallentamento della domanda italiana e l’aumento dei costi di attività. E che conferma il ruolo fondamentale che i nostri bar, ristoranti, pizzerie e pub svolgono nel nostro turismo”.

Una rete di oltre 340mila imprese 

“Il sistema dei pubblici esercizi italiani ha caratteristiche uniche al mondo. A partire dalla numerosità, oltre 340mila imprese, dovuta alla scarsa penetrazione delle grandi catene e dalla prevalenza di locali indipendenti e a gestione familiare. Realtà spesso legate alla cucina tradizionale locale, che generano una varietà di offerta sul territorio unica, che rende l’Italia tra le mete più ambite per i viaggi ‘a scopo enogastronomico’ di foodie e turisti amanti della buona cucina – aggiunge Banchieri -. Anche grazie all’aumento di dehors e tavoli all’aperto: un ampliamento avvenuto per ragioni di sicurezza pubblica con la pandemia, ma che è diventato una delle modalità di consumo più gradite”. 

Prestiti: un 2023 cauto, ma finanziamenti personali +19%

Emerge dai dati EURISC, il Sistema di Informazioni Creditizie gestito da CRIF: il 2023 per il mercato dei prestiti è stato l’anno della cautela, segnato da una dinamica altalenante. Se i primi cinque mesi dell’anno sono risultati in crescita i mesi successivi sono stati caratterizzati da una frenata più o meno marcata.
Quanto al dato complessivo, malgrado tali discontinuità le richieste si sono mantenute nel complesso stabili, con una crescita del +0,4% rispetto al 2022.

Le forme tecniche della domanda di credito che hanno risentito maggiormente dell’andamento a singhiozzo sono state le richieste dei finanziamenti finalizzati, in calo del -10,4%, mentre ha tenuto il comparto dei prestiti personali, che ha segnato un +18,9%.

Dopo 3 anni torna a salire l’importo medio, ma rate più diluite

L’importo medio dei finanziamenti richiesti, dopo 3 anni negativi, ritorna a crescere del +4,0% e un valore di 8.427 euro.
La dinamica positiva coinvolge i prestiti finalizzati, con un valore pari a 5.862 euro (+2,5% rispetto al 2022), mentre i prestiti personali scendono a 11.759 euro (-3,8% vs 2022).

Entrando nel dettaglio della distribuzione dei prestiti per fascia di importo, il dato cumulato mostra come un italiano su due richieda importi inferiori a 5.000 euro (54,4% del totale), seguiti dagli scaglioni 10.000-20.000 euro (17,3%) e 5.000-10.000 euro (16,4%).
La domanda, seppur in prevalenza di piccoli importi, viene dilazionata su un arco temporale comunque superiore ai 5 anni per il 27,3% degli italiani.

Prestiti personali: durata superiore a cinque anni per il 50,2% 

La dinamica prudente delle famiglie italiane si rispecchia anche nello spaccato delle due forme tecniche considerate.
Il 76,3% delle richieste di prestiti finalizzati ha un’estinzione del debito entro 3 anni, mentre i prestiti personali, che spesso rappresentano un impegno particolarmente gravoso per le famiglie, tendono a concentrarsi nella fascia di durata superiore a cinque anni (50,2%).

Quanto alla distribuzione delle richieste di prestiti (aggregato personali e finalizzati) in relazione all’età del richiedente, il Barometro CRIF evidenzia come nel 2023 la fascia compresa tra 25 e 54 anni sia stata quella maggioritaria, con una quota pari al 63,4% del totale.

Offerta: nel 2024 permane la cautela

Se le famiglie hanno ridimensionato i progetti di spesa, dal punto di vista dell’offerta si è assistito a “una maggiore attenzione sui criteri di accesso al credito per via dell’incertezza generata dal contesto geopolitico, dall’inflazione e dall’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE – commenta Simone Capecchi, Executive Director di CRIF -. Le previsioni dell’anno da poco iniziato mostrano che l’espansione delle consistenze di credito sarà inferiore rispetto alle performance del biennio 2021-2022, anche perché la maggiore rischiosità attesa manterrà caute le politiche di offerta. In questa direzione vanno le raccomandazioni degli organi di vigilanza che sollecitano gli operatori a mantenere alta l’attenzione sulla domanda di credito”.